Mettiamo da parte il romanticismo scaturito durante l’emergenza e i proclami del tipo: “Nessuno perderà il lavoro” o “Ricordiamoci dei profili basici che in tempi di pandemia hanno messo a rischio se stessi per assicurarci beni di prima necessità“. Sono solo slogan, magari sinceri e dettati dall’emotività del momento, ma senza nessun appiglio pratico al mondo reale che, dopo questo stop&go, continuerà a correre, anzi di più.
L’ennesima conferma arriva dal Rapporto Covid19 and the workforce del Mit Technology Review, in cui si incrociano due temi essenziali: la salvaguardia della salute dei lavoratori e la tutela della produttività aziendale, confluendo nella nuova roadmap tecnologica per il business in cui tra 32 e 50 milioni di posti di lavoro negli Stati Uniti potrebbero essere sempre più assistiti dalla tecnologia per ridurre i rischi per la salute umana e salvaguardare la produttività in un momento di crisi. Ne beneficerebbe prima di tutto la sanità, con medici specialistici, anestesisti, infermieri e tecnologi sanitari in funzione “aumentata”, grazie alla tecnologia (ed in particolare all’Intelligenza artificiale).
Di contro, i profili professionali che erano già a rischio nel pre-Covid19 (cassieri, camerieri e autisti, solo per citarne alcuni) sono seriamente a rischio poiché i processi di automazione sono arrivati ad un ottimo grado di maturazione e nel tempo si cercherà di operare con meno personale. L’intelligenza artificiale accelererà il ritmo dell’innovazione nelle categorie di lavoro ad alto rischio, dunque, generando effetti positivi e negativi: alcuni ruoli saranno più sicuri ed efficaci, altri più vulnerabili e soggetti alla sostituzione. Questo è il trend che emerge dagli Stati Uniti, da un’economia che è di riferimento per tutto l’Occidente, e l’accelerazione tecnologica rischia di generare un rapido effetto domino.
Tutto ciò impatta su due paroline magiche ma poco utilizzate in Italia: reskilling e upskilling, ovvero riqualificazione ed elevazione delle competenze. Processi che confluiscono nella formazione, nel miglioramento continuo, nella capacità di ricollocazione di profili che l’automazione rischiano di inserire nelle spersonalizzanti caselle “scarti” o “esuberi”.
La questione è talmente grande e complessa da non poter essere demandata al singolo o alle imprese: è questione “politica” ed infatti, a medio e lungo termine, sono i Governi che dovrebbero guidare l’industria nello sviluppo di una politica tecnologica e di sistemi educativi per garantire la resilienza nazionale, con supporti alle aziende che forniscono servizi di prima linea essenziali, garantendo che i ruoli ad alto rischio traggano vantaggio dalla migliore tecnologia disponibile.
In attesa che ciò avvenga – semmai avverrà – cosa fare per chi si sente a rischio? Il futuro si gioca sulle competenze, e allora chi ha ruoli automatici, ripetitivi, routinari dovrebbe dotarsi di sguardo strabico ma efficace in due direzioni: là dove il “tocco umano” può fare la differenza (comunicazione, rapporti con i clienti, ecc.) e sul versante tecnico e tecnologico, accelerando la conoscenza di competenze in grado di metterlo in grado di manutenere le macchine e “dialogare” con esse, perchè quello potrebbe essere il suo ruolo nel prossimo futuro.